Visita in Congo 2008

“Sono partita da Lamezia Terme il 26 luglio 2008 e sono arrivata a Kinshasa, la capitale del Congo (ex Zaire) il 27 luglio.

Per mia fortuna, all’aeroporto c’era ad aspettarmi Suor Marguerite la quale mi ha aiutato a liberarmi dalla decina di persone che cercavano di prelevarmi i bagagli per ricavarne poi una mancia da facchini.

Suor Margherite mi ha assicurato che aveva prenotato un taxi incaricando una persona di sua fiducia di prenderne uno buono. Nella mia immaginazione pensavo un taxi come i nostri, magari un vecchio modello, ma mi trovai dinanzi una vecchia auto, senza vetri ai finestrini, con gli sportelli che non si chiudevano bene, i sedili sfondati dai quali fuoriusciva l’imbottitura   e non mancava qualche foro sul fondo. Mi chiesi se quel rudere fosse in grado di muoversi. Saliti in auto, con gran chiasso e fuoriuscita di fumo nero, partimmo verso Kinshasa e si aprì dinanzi a me una lunghissima strada asfaltata ai lati della quale camminavano, nella terra, tante persone con bagagli sulla testa o che trainavano una bici stracarica di bagagli.

Entrati in città, le strade non erano più asfaltate ma di terra. La pioggia aveva scavato nella strada fossi e canali che la gente cercava di riempire con la spazzatura. Ai lati delle strade ci sono le case di mattoni grigi, di fango seccati al sole, alte meno di 3 m. e con il tetto di lamiera ondulata (necessario per raccogliere l’acqua piovana durante la stagione delle piogge).

Foto scattate a Kinshasa

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La casa media ha una dimensione di 4m x 5m, con 1 porta e qualcuna ha anche una finestra di 0,50m. x 0.50m, in cui vivono almeno 7-8 persone. Qualche casa un po’ più grande ha anche due finestre ma sempre delle stesse dimensioni. Per le strade, in ogni ora del giorno, c’è una folla di bambini scalzi e seminudi che mi corrono incontro, sia per la curiosità di vedere una donna bianca sia per avere qualcosa, e dinanzi alle case dei tavolinetti  su cui è in vendita la farina di magnokia, qualche banana, un po’ di fagioli e qualche verdura.

Chi ha avuto la fortuna di possedere una radio e può permettersi di comprare le batterie, allieta tutto il quartiere con la musica ad alto volume.

I Bambini sono sorridenti nella loro incoscienza ma le persone adulte hanno il volto triste e segnato dagli stenti.

In attesa del volo per Kananga, l’indomani Suor Marguerite mi propose di andare al centro città. Uscimmo sul rettilineo e salimmo su di un taxi-bis: una vecchio furgoncino dove, al posto dei sedili, erano state inserite 3 file di sgabelli in legno grezzo. Abbiamo viaggiato in 16 persone. Nel cuore della città le strade sono di nuovo asfaltate, anche se senza marciapiedi, ci sono palazzi di 5-6 piani e ville con giardino tutte con aria condizionata. Qui non si possono scattare foto. È la zona in cui abitano i politici ed i personaggi che contano. C’è una costosa scuola belga frequentata dai figli dei personaggi che abitano nella zona. Per gli altri è negato il diritto allo studio: non ci sono scuole pubbliche e le uniche scuole che ci sono, oltre quella belga, sono private e bisogna pagare 150 € all’anno. I  Congolesi, il cui reddito annuo ammonta a 400/500 € all’anno, sono condannati a restare analfabeti.

Non c’è acqua corrente nelle case e l’acqua arriva in alcune fontane pubbliche 3 volte alla settimana.

La corrente elettrica è debolissima e va e viene durante il giorno.

Se questa è la situazione della Capitale, nelle altre città e nei villaggi è ben peggiore.

A Kananga, che è la seconda città del Congo, l’acqua è come a Kinshasa ma la corrente arriva solo dalle 19,00 alle 21,00 e, a volte, neanche arriva.

Da Kananga, tappa intermedia per raggiungere il “Jardin Abel”, sono partita in Gip, accompagnata da Suor Martine, con una Gip alla volta di Lwiza: Più che una strada è una pista sabbiosa, attraverso la savana, dove dossi e fossati, prodotti dalla pioggia, rendono necessarie 10 ore di viaggio per percorrere 200 km.

A Lwiza la situazione è drammatica. Non c’è acqua e le donne vanno al fiume con dei grandi secchi percorrendo km e km con i bambini al seguito. Non c’è corrente elettrica, non c’è rete telefonica e, solo chi può permetterselo, usa un cellulare.

La casa del Vescovo è a piano terra, alta circa 3 m, con tetto in lamiera ondulata e conta 5-6 stanze. Nel cortile c’è un pollaio, qualche capretta, un porcile ed un orto che il Vescovo stesso bada a coltivare.

Dopo 3 giorni, siamo partiti alla volta di Mwene-Ditu, la 3 città del Congo, dove risiedono i Bambini del “Jardin Abel”. Abbiamo impiegato 15 ore per percorrere 180 km percorrendo una strada ancora più disastrata di quella che da Kananga ci aveva portati a Lwisa.

A Mwene-Ditu la situazione non cambia: non c’è acqua, non c’è corrente elettrica e le strade sono pocvo più che tracciati su terreno dissestato. Non ci sono mezzi di trasporto e la gente per spostarsi si serve, pagando, di camion sui quali prima si caricano le merci e, poi, sopra di queste, le persone ed, eventualmente, capre e polli.

Fin dal sorgere delle prime luci del giorno le donne escono per andare al fiume a prendere l’acqua che usano per tutto, anche per bere, con la conseguenza che ne possono derivare: vermi e tifo.

Ai Congolesi è negato anche il diritto alla salute: non esiste la sanità pubblica. I medici e gli ospedali sono a pagamento e chi non può pagare è condannato a morire a qualsiasi età.

Una donna su tre muore di parto. La malaria e il tifo, insieme all’epatite, sono le cause di morte più frequenti. Nelle farmacie i farmaci scarseggiano. Gli ospedali, a pagamento, funzionano quasi esclusivamente come pronto soccorso: i medici fanno la diagnosi, prescrivono la cura e, dopo un giorno, dimettono i pazienti i quali dovranno andare a comprare i farmaci per curarsi. Sul volto dei medici si legge una grande mortificazione perché non possono esercitare la loro professione come si dovrebbe in quanto, negli stessi ospedali, manca di tutto a partire dai disinfettanti. Gli unici interventi che si eseguono negli ospedali sono: appendiciti, amputazioni di arti, sistemazione di femori rotti, parti cesarei.

E che dire dei Bambini dell’orfanatrofio “Jardin Abel”?

Vi sono circa 160 bambini che vivono in condizioni disumane.

Appena sono arrivata ho visto una folla di bambini d’ogni età, da pochi mesi a 17-18 anni, tutti scalzi e che indossavano dei cenci. Mi hanno fatto una gran festa, chissà cosa si aspettavano da me. Gli ho distribuito le caramelle che avevo portato e dei palloncini e, successivamente ho consegnato a quelli che hanno una famiglia adottiva, i piccoli regali che gli avevano mandato le stesse famiglie.

 Cinque suore, aiutate dalle ragazze più grandi che si occupano dei neonati, si prendono cura di loro. Non ci sono culle per cui la ragazze tengono per tutto il giorno, facendo i turni, i neonati tra le braccia e la notte dormono con loro.

Tutti mangiano una sola volta al giorno: una pallina di farina di mais e magnokia cotta solo con acqua e delle foglie di magnokia lessate e condite con olio di palma.

La magnokia è una pianta che produce una radice come quella di una carota, ma bianca e molto grande, che viene essiccata e poi macinata ricavandone una farina bianca.

Il mulino ambulante

Solo i neonati prendono il latte finché non imparano a mangiare.

Non ci sono allevamenti di mucche e il solo latte che circola è quello in polvere che è estremamente costoso. I bambini mangiano la carne solo nelle grandi feste.

Che tristezza vederli, la sera, specie i più piccoli, piangere, nei vari angoli del cortile, perché avevano fame!

I piccoli facevano a gara a prendere la mia mano o a sedersi sul muretto accanto a me. Hanno bisogno d’amore e di tenerezza e non hanno nessuno che possa dargliele. Sono tutti bambini e ragazzi orfani di entrambi i genitori o abbandonati. Molti sono arrivati a Mwenw-Ditu, fuggendo dai luoghi dove imperversa la guerriglia,  una volta persi i genitori.

 Uno dei piccoli ospiti è Binene Edmond. Edmond è un bambino di 9 anni con grandi problemi psichici perché è stato arrestato insieme a tutta la famiglia durante la guerra nel 2001, ha visto uccidere i suoi genitori e lui è stato lasciato, legato mani e piedi, nel carcere buio dove l’hanno trovato, dopo alcuni giorni, in condizioni facilmente immaginabili. Edmond è molto traumatizzato e non parla con nessuno. Mi ha osservato a lungo, ha capito il mio affetto e si è lasciato avvicinare. Abbiamo fatto amicizia e, con mio grande stupore, ha cominciato a parlare e mi ha chiesto un paio di scarpe. Come negargliele?. Così andai al mercato con la Suora direttrice a comprare le scarpe per tutti. Ci fu una grande festa. Alla distribuzione sprizzavano gioia da tutti i pori ed i piccoli saltellavano con le scarpette nuove: era una conquista per loro non sentire più terra e sassi sotto i piedini.

L’orfanotrofio è costituito da due edifici, a piano terra e con il tetto in lamiera, adibiti a dormitorio: uno per i maschi e uno per le femmine. Ciascuno di essi è diviso in due: in una stanza dormono i piccoli fino a 12-13 anni e nell’altra gli altri.

Sapevo che dormivano a terra ma pensavo che avessero dei materassi e dei teli per coprirsi e, invece, mi si strinse il cuore nel vedere che stavano ammassati in 30-40 in ogni stanza (di dimensioni 4m x 4m) e che dormivano su letti a castello a 4 piani, fatti artigianalmente di tavole grezze. Dormono su queste tavole, 2, 3 4 e anche di più su ogni tavola, senza materasso e senza lenzuola. La notte fa freddo e non hanno nulla per coprirsi. L’aria in queste stanze è irrespirabile.

Il bagno è costituito da un pozzo nero, sul cui coperchio è stato fatto un buco, ed è chiuso su tre lati da una lamiera. Anche qui c’è una puzza irresistibile e c’è una nuvola di mosche.

Per lavare i bambini piccoli, una suora li mette su di un muretto, li bagna con acqua fredda, li insapona, li sciacqua con acqua fredda e poi li mette a terra ad asciugarsi all’aria. Quei piccoli piangono e tremano perché la mattina fa freddo. I grandi fanno la doccia dietro un muretto di cemento con lo stesso sistema.

L’unica acqua che usano è quella del pozzo che gli abbiamo costruito l’anno scorso mentre prima usavano l’acqua piovana o quella del fiume, anche per bere.

Durante la mia permanenza a Mwene-Ditu, sono stata nell’orfanotrofio ed ho dormito nella stanza destinata alla madre Generale quando si reca in visita lì: una stanza di 2m x 3m dove c’è un tavolo di legno grezzo e un letto di tavola, come quello dei Bambini, su cui c’è un sottile strato di spugna nera e delle lenzuola; per cuscino della stoffa sottile arrotolata in un sacchetto. Il pavimento della stanza è di cemento e c’è una finestrina con inferriata di 50cm x 50 cm. La notte sul pavimento circolavano gli scarafaggi. Il bagno comune in fondo ad un corridoio. Ognuno possiede un secchio pieno d’acqua sia per il bagno che per lavarsi. Per illuminare la stanza nella notte: una candela o la mia piccola torcia.

Ho mangiato quello che mangiavano le suore e in quei piatti lavati con uno straccetto in una bacinella e senza detersivo.

Temevo di soffrire per la totale assenza d’igiene in cui si vive lì ma, davanti alle loro privazioni, si dimentica il proprio disagio.

Rendo Grazie a Dio per avermi sostenuta sia nei viaggi che durante la mia permanenza lì e Lo prego di far sì che quei Bimbi non debbano più soffrire la fame né morire per mancanza di cure mediche.”

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